Postfazione di Thomas Mackinson giornalista de il Fatto Quotidiano al libro di Irene Testa Sotto il Tappeto
Postfazione di Thomas Mackinson giornalista de il Fatto Quotidiano al libro di Irene Testa Sotto il Tappeto
I figli di Antonio Morrone mi scrivono ancora. Mandano documenti, reperti, aggiornamenti sulla loro tormentata vicenda. Non conta se non uscirà una riga, vogliono che sappia. Sul mio giornale avevo dato spazio alla strana e incredibile guerra, lunga ben 26 anni, contro l’autodichia della Consulta. Il padre, tipografo, era morto nel 1990 tra i fumi di locali mai messi a norma. La correlazione tra decesso e insalubrità del laboratorio al primo piano della Corte Costituzionale era stata accerta dai medici della Cecchignola. Ma per i figli del tipografo non c’era stato verso di vedere scritta quella verità, perché l’organo costituzionale si è trincerato dietro la propria esclusiva postestà a riconoscere ai dipendenti la causa di morte in servizio. Opzione respinta non solo o tanto per sottrarsi a eventuali risarcimenti ma perché avrebbe suscitato scalpore la stessa ammissione che nei locali dove venivano stampate le leggi del Parlamento ad uso dei supremi giudici si moriva per intossicazione da solventi. Ogni tanto mi capita di ripensare a quella storia che forse non avrà mai epilogo diverso e a quante altre siano rimaste invisibili, nascoste“Sotto il tappeto” insieme ad “altri misteri di Palazzo”, come scrive Irene Testa nel suo libro.
Anche per questo, dopo aver letto il secondo lavoro di Irene Testa, ho desiderato subito un terzo, magari una raccolta delle storie delle vittime sotto il nome di “cronache dell’autodichia”. Perché tante deve averne fatte la conservazione di quel sistema nato pur con scopi nobili ma pervertito in scudo protettivo a beneficio di pochi. Irene Testa parte da storie apparentemente lontane, da un carteggio tra Pertini e La Malfa che già indicava gli effetti della perversione: spaccare la società in due, conservare nel cuore delle istituzioni
democratiche della Repubblica una riserva dove si perpetuano le diseguaglianze tipiche di una società arcaica profondamente anti-egualitaria e perciò più simile alle monarchie dell’ancient régime che a un moderno Stato. Le cui vittime, come scrive Irene Testa, sono in prima battuta i dipendenti, i collaboratori parlamentari, i fornitori del “palazzo” ma in ultima siamo noi tutti, perché non c’è più dubbio alcuno sul fatto che il regime di autodichia e autocrinia precluda al popolo italiano “il pieno esercizio di quella sovranità che la Costituzione formalmente gli affida”.
Un’affermazione che nel libro trova molti riscontri fattuali, storici, giuridici e perfino filosofici. Un contributo di analisi più che importante, essenziale direi, per comprendere alcuni snodi della vita politica e pubblica con cui intere generazioni di cittadini italiani sono diventate adulti, anche quelle recenti: il crescente senso di straniamento verso la politica, i privilegi della “Casta” che sono l’infinito racconto giornalistico degli ultimi 15 anni, il disinteresse verso l’esercizio democratico del voto certificato dall’astensione, l’antipolitica che si produce addirittura in proposta politica su iniziativa di movimenti che fanno dell’abbattimento del“sistema” il loro scopo fondativo pressoché esclusivo. Ecco, tutto questo non si può capire davvero senza passare per l’Autodichia.
Neppure si può coglierne il costo sociale, ben testimoniato dalla vicenda degli eredi Morrone da cui ero partito, consumata in un lungo e assordante silenzio.
Erano stati loro a contattarmi perché avevo scritto un articolo sul Fatto Quotidiano che ancora una volta raccontava di privilegi inaccettabili dentro i Palazzi del potere. Roba di casta che si somiglia e che all’epoca dava il pane a tanti giornalisti e ancora ne darà. Allora accennavo a qualcosa. Quelle storie, tutte uguali, dovevano avere una radice comune profonda per resistere agli attacchi della stampa, alle critiche dei cittadini, alle azioni della magistratura penale e contabile. Qualcosa doveva aver trasmesso agli inquilini dei massimi organi dello Stato un senso di impunità, di preminenza sulla legge comune, che non potevano essere compresi da cittadini normali. Fu allora che Irene mi chiamò e mi introdusse per
mano dentro lo specchio d’orato e scrostato dell’Autodichia. Fu lei, con il suo primo libro, a farmi vedere oltre la superficie e farmi entrare nelle stanze del potere per come non le avevo mai viste. E solo allora fu tutto molto chiaro. Solo allora le tante storie che avevo raccontato, che traevano spunto da sottili e farraginosi meccanismi di regolazione dei rapporti economici e giuridici degli eletti, acquisivano una logica ordinata e comprensibile: stavo raccontando ne più ne meno gli effetti perversi dell’Autodichia.
Il giorno stesso scoprii anche che c’era anche una piccola schiera di persone, di militanti, di giuristi, di studiosi che si adoperava per il suo superamento. Irene Testa, con i suoi due libri, si è collocata alla testa di questo manipolo di sovversivi offrendo il contributo di conoscenza e consapevolezza più prezioso e completo. Il mio auspicio è che queste 93 pagine, oltre che in libreria, finiscano negli scaffali delle biblioteche universitarie, nelle redazioni politiche dei giornali e perché no, nelle case di molti italiani. Perché il mostro dell’autodichia torni nel secolo che gli è proprio, verso il Medioevo della democrazia o giù di lì, è fondamentale che molti altri imparino a riconoscerlo a vista, ad additirarlo per quello che è: un intruso
nella vita democratica dell’Italia moderna. E allora, forse, cacciarlo diventerà davvero un’opzione ineludibile per chi lo ha allevato, nutrito e difeso nel proprio interesse anziché nel nostro. Cara Irene, viaggia ancora dentro lo specchio. Il vetro è infranto.
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